Antonio Errigo
01/08/2017
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Un viaggio lungo, lunghissimo. Di quelli che ti anchilosano le gambe, ti indolenziscono la schiena e intorpidiscono la mente. Italia-Cambogia: in assoluto la distanza più grande che io abbia mai coperto. Non è un caso essere qui con Giulia. Ha organizzato tutto lei. È anche per questo che l’ho sposata, perché è l’unica che sa prendermi per mano e portarmi ovunque… persino fin qui (agli inizi della nostra storia mi stupì presentandosi a sorpresa con due biglietti per Berlino, un gesto ordinario è vero, ma nessuno prima di lei lo aveva mai fatto. E sì sa, alle volte basta poco per sbalordire qualcuno).

 

 

La prima tappa del nostro viaggio di nozze è la città di Siem Reap e quel che m’ha colpito all’arrivo è stata la ventata di aria calda che m’è arrivata in faccia dopo l’apertura del portellone posteriore di un piccolo aereo con propulsore ad elica, preso a Bangkok. Un calore che ha appannato le lenti dei miei occhiali da sole. O, forse, a essere appannata era solo la mia vista, quella di un viaggiatore fermo da troppo tempo…

 

Ritrovare il senso del viaggio non è una cosa facile.

 

Più si cresce e più la vita sembra esser fatta di scene ripetute all’infinito finalizzate a trovare la perfezione: il lavoro perfetto, l’amore perfetto, gli amici perfetti, la forma fisica perfetta, la famiglia perfetta. Eppure dovremmo renderci conto che talvolta la perfezione sta nelle cose incompiute e difettose. E i viaggi insegnano proprio questo.

 

 

Siem Reap è incompiuta e difettosa. Arrivato qui ho fatto un tuffo nella mia infanzia, quando ero ossessivamente fissato con le arti marziali e me ne stavo ore e ore davanti alla TV a vedere vecchi film di Jean Claude Van Damm come “Senza esclusioni di colpi” o “Kickboxer – Il nuovo guerriero” che, benché ambientati in luoghi diversi di questo, avevano il medesimo scenario che mi sta passando sotto gli occhi adesso: motorini in ogni dove, i tipici tuk-tuk che non rispettano uno straccio di regola e si infilano dove c’è spazio, donne e bambini a piedi nudi, panni stesi ovunque, palme, banani e piante di bambù.

 

 

Quel che colpisce da queste parti è un inquantificabile numero di amache dondolanti. Se ne vedono ovunque, legate a due tronchi d’albero, o due colonne, ne ho vista persino una legata sopra ad un tuk-tuk o ad un portellone aperto di un bus turistico, sì esattamente dove si mettono i bagagli. Robe da matti. Sono tutti molto stanchi qui…

 

In questo luogo c’è una totale discrasia tra ricchezza e povertà. Gli uomini e gli animali convivono allo stato brado e le strade appena fuori la città, quelle che portano ai templi sacri, di un terriccio rosso fuoco, sono costeggiate da palazzine sopraelevate (per i più ricchi) e da vecchie palafitte di fortuna (per i più poveri) di fronte alle quali ci sono mercatini costruiti con tavole di legno, ferro filato e foglie d’albero dove vengono, riparate le cose, smerciati cocchi, altri frutti esotici, olio di palma e spezie varie. Le vacche, tutte magre e ossute, i cani ed i galli randagi nella migliore delle ipotesi si muovono lentamente, la maggior parte delle volte, invece, se ne stanno accucciati su loro stessi al riparo dal sole cocente. Gli unici movimenti bruschi e gioiosi sono quelli dei bambini incoscienti che sgattaiolano mezzi nudi di qua e di là tra una baracca e l’altra, giocando con ogni utensile che capiti loro sotto mano. Alcuni sguazzano nelle risaie, vicini a genitori stanchi e accovacciati con le mani nella fanghiglia.

 

E a noi occidentali non rimane che osservare, più o meno consapevoli, quel che accade.

 

Io vorrei fotografare tutto e alle volte lo faccio. Altre mi sento una merda e mi fermo (cosa c’è di affascinante nella povertà?) e altre ancora metto proprio via il telefono, rendendomi conto di quanto la somma del tempo perso negli scatti sia l’esatto tempo sottratto a vivere, vivere davvero, riflettere!

 

Ad accompagnarci in questi luoghi, tra le decine di vie che portano ai templi sacri, c’è Ratha, un mio coetaneo. Ci dice di avere una moglie, tre figli ed una madre che, proprio ieri, è stata poco bene. Nel suo sguardo c’è la preoccupazione di un figlio che vorrebbe tornare dalla mamma malata e la responsabilità di un padre che non può perdere i soldi che gli daremo noi a fine giornata. C’è dignità nelle sue parole e nel suo sapere. Parla un ottimo italiano e ci narra la storiografia di questi luoghi contraddistinti da ospitalità e riverenza verso il turista.

La nostra lingua dice di averla appresa da un cugino che a sua volta ha studiato con uno scrittore torinese trasferitosi da queste parti molti anni fa, tale Claudio Bussolino che, grazie all’immediatezza di Google, scopro esistere davvero!

 

In due giorni abbiamo visto tanti templi, piccolissimi, piccoli e grandi.

Abbiamo patito il caldo, abbiamo bevuto come non mai, abbiamo riso e scherzato, abbiamo saputo tacere, abbiamo sentito tante storie, alcune più interessanti, altre meno. Ognuna meritevole d’ascolto.

 

Mi ha colpito un dato. Qui la percentuale di sopravvivenza ad una qualsiasi malattia è pari al 40%. Pare che la gente si indebiti, impoverendosi a dismisura, per curarsi negli ospedali. Forse è per questo che credono nella reincarnazione. Perché ognuno di loro sembra aver bisogno di poter credere che l’anima, lo spirito, il corpo possono avere un altro e diverso destino.

 

 

Ma voglio chiudere con un aneddoto: ieri sera io e Giulia a momenti discutevamo per la scelta del ristorante. È nota la mia avversione verso cibi strani, è un limite lo so. Alla fine ha scelto Giulia e siamo andati in un ristorante Cambogiano.

 

Dopo l’ordinazione mi ha detto, anche con una certa soddisfazione, che quello in cui ci trovavamo era il diciassettesimo ristorante più noto in città.

 

Come mai abbiamo escluso i primi sedici… io non lo so !

 

Alla prossima tappa :)

 

 

 

 

 

 

[photo by ANTONIO ERRIGO]

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