Antonio Errigo
27/01/2016
Commenti
foto 4

 

 

È così tanto tempo che non scrivo che oggi, appoggiando le dita sulla tastiera del mio computer, ho avuto la sensazione di non esserne più capace.

 

Un po’ come quando studi l’inglese per mesi e mesi. Fai una marea di esercizi, l’insegnante madre-lingua, la penna rossa, l’evidenziatore, lo slang, l’ascolto in cuffia, i punteggi, i livelli, i certificati … poi in strada arriva il primo giapponesino sorridente che ti chiede indicazioni per Piazza Navona e tu vai in panico, sudi, balbetti, coniughi i verbi come un bambino di tre anni e vorresti solo dire “Hello, what’s your name? Cazzo, what’s your name?!

 

Sì, più o meno oggi tornando a scrivere mi son sentito privo di quelle piccolissime certezze acquisite nel tempo. Ma in fondo va bene così. Qualcuno ha detto che in ogni cosa è salutare, di tanto in tanto, mettere un punto interrogativo a ciò che a lungo si era dato per scontato.

 

Ieri ho compiuto 32 anni e nonostante un ormai conclamato “blocco dello scrittore” mi è tornata la voglia di buttar giù qualche riflessione.

È questo il regalo che mi faccio ogni anno: riflettere, foss’anche per un secondo, su quel che ho fatto e quello che desidero fare, quel che do agli altri e quello che, di contro, ricevo dagli altri.

 

Beh, così, in prima battuta, mi sembra di poter chiudere il bilancio in positivo. A 32 anni credo di essere arrivato a capire gli incanti, i disincanti, le delizie e le amarezze di questo nostro tempo.

 

Negli ultimi mesi mi sono messo al servizio di un modo di fare differente, imbattendomi nello straordinario della vita. È stato sufficiente fermarsi un attimo, godersi i ritmi ben scanditi d’una città di provincia (non è stato facile!), i primi passi e le prime paroline di mio nipote, evitare la solita smania delle partenze a tutti i costi, raccogliere e ordinare le idee migliori e riattivare alcuni sensi assopiti ormai da un po’.

 

Ho ritrovato il gusto e la passione.

 

Eppure non ho perso né la mia sana irrequietezza né la fame di viaggi. Forse perché ho fatto mie le parole di Wilde. Lui diceva che le cose vere della vita non si studiano e non s’imparano, si incontrano. E io, delle cose vere della vita, mi ci nutro…

 

Sapete, dietro di me in questo momento – appoggiate al muro della mia stanza – ci sono un paio di cornici che raccontano due cose vere, verissime.

 

Una contiene un Attestato di merito per il mio lavoro svolto a Bruxelles. Qualcuno, qualcuno di molto autorevole, ha detto che il mio operato durante la nostra Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea è stato eccellente (sì ha usato questa parola). Su quella carta pregiata c’è impresso l’emblema della Repubblica Italiana. E pensate che ora sotto quel simbolo (stracarico di nobili significati), sotto la parola “merito”, c’è il mio nome.

Tutto il valore che do a quell’attestato sta nei sorrisi commossi ed orgogliosi dei miei genitori.

 

Bene, dovete sapere che qualcun altro, qualcun altro di molto poco autorevole, nel tempo mi ha riservato l’appellativo di “figlio di”. Come a voler dire che i miei traguardi sono stati agevoli, solo perché figlio di un padre importante. Risultati comodi, semplici. Meriti di dinastia o casata.

E chi se ne frega di quanto io abbia studiato e faticato…

 

Un vecchio proverbio dice che il silenzio è un recinto intorno alla saggezza. E dunque, nonostante gli impeti della prima ora, non ho mai replicato a quei facili giudizi mal formulati per via deduttiva. C’è così tanta forza e dignità nei miei sacrifici che non ce n’è mai stato bisogno.

 

C’è un’altra cornice dietro di me.

Quella che contorna la foto più bella di questa estate. È in bianco e nero. Ci siamo io e Giulia.

 

Giulia è il mio traguardo migliore. È la mia storia. È l’imprevedibile.

E questa volta non ci sono simboli, né qualcuno che certifica, che delimita, che giudica.

Giulia è vera. E forse lei è arrivata perché io ho saputo indugiare sul tempo e rifiutare le cose facili.

Adesso, con lei, mi sembra di stringere tra le mani un biglietto di sola andata.

Sì, nulla è scontato e tutto va costruito, ma in questa foto Giulia mi afferra da dietro, mi stringe a se e ride. E io rido con lei.

Quando si ride si è già in viaggio. E qualunque sia la destinazione, è quella giusta…

 

Giulia è come l’acqua.

 

Lei è la mia America. È l’allegria della Spagna, è l’introspezione del Belgio, il fascino della Turchia, la straordinaria sorpresa dell’Ungheria. È intrigante come la fredda Germania.

Giulia è elegante come i suoni della Francia, è sincera come le stradine sperdute del sud Italia, è rock come l’Inghilterra, m’emoziona come le sconfinate spiagge del Portogallo. Sa essere calda e accogliente come un’isola greca.

 

In Giulia ho trovato i miei viaggi, i dettagli, la necessità di non trovarmi più altrove per caso. È con lei che ho perso la mia più cattiva solitudine. È lei l’iride verde, il mio nuovo filtro sul mondo.

 

Credo che qui, su questo blog, io non debba aggiungere altro. Nient’altro che meriti d’esser pubblico e pubblicato. E sapete perché? Perché le cose vere vanno protette.

Ecco, forse avrei potuto usare la metà delle parole ma, in fondo, è solo questo quello che volevo dire.

 

Cercate di proteggere le cose vere che avete conquistato nella vostra vita!

 

Perché in questo mondo qui, dove tutto (o quasi tutto) è apparente ed illusorio, finto, condito da offese gratuite, dove regnano quotidiane e disordinate deviazioni, prima o poi avremo bisogno di appigliarci alle nostre verità.

 

Io poche ore fa ho soffiato sulle candeline del mio trentaduesimo compleanno. Tenevo tra le braccia mio nipote. Mia sorella e Giovanni ci guardavano divertiti. I miei genitori erano sorridenti e compiaciuti. E Giulia scattava una fotografia.

 

Li ho guardati tutti per un secondo. Si dice che prima del soffio si debbano esprimere dei desideri.

 

I miei erano tutti lì. Già avverati…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[photo by ANTONIO ERRIGO]

COMMENTI: