Antonio Errigo
29/12/2012
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Si dice che per catturare l’attenzione di un lettore sia necessaria una prima frase ad effetto.

Un qualcosa che invogli a continuare la lettura di un qualsiasi scritto.

Qualcosa che catturi l’attenzione ed alimenti la curiosità.

 

Io una frase ad effetto oggi non ce l’ho, ma poco male. Credo di avere tutto il resto … tutto quello che può fare ugualmente la differenza.

 

Io oggi, mentre scrivo, ho sotto gli occhi una copia del New York Times. È ripiegata su se stessa ed è legata con un pezzo di spago.

È datata 14 luglio e non basterebbe un libro intero per descrivere le sensazioni che ho provato quando l’autista del New York Times delivery me l’ha regalata.

 

E sì, perché quel mattino erano le cinque passate quando sono salito nel retro del camioncino. Avevamo bisogno di un passaggio.

Strano, ma nessun taxy a vista.

Solo noi e l’eco delle nostre voci in una Fifth Avenue quasi deserta, il semaforo rosso e Jhon … l’autista con i baffi ed i capelli bianchi.

Era assonnato, stanco ma con la forza di sorridere di noi che, al contrario, la stanchezza quella notte l’avevamo vinta a suon di gin-tonic o vodka-redbull.

Eravamo appena usciti da una delle più belle discoteche di New York. Una di quelle dove è difficilissimo entrare e ancor di più … riuscire ad uscire.

Cantavamo. Azzardavamo ancora degli orribili balletti. C’eravamo divertiti come non mai, ma non eravamo ancora in riserva. Avevamo ancora benzina a sufficienza per tirare avanti e goderci l’alba.

 

Ci siamo avvicinati incuriositi a John e, senza alcun tipo di vergogna, gli abbiamo chiesto un passaggio, sicuri che ci sarebbe stato un secco NO.

Ed invece, con un semplice gesto della mano, quell’uomo assonnato aveva deciso di svegliarsi e concederci l’emozione di salire nel retro del suo furgone ormai vuoto.

Aveva finito le consegne. Andava nella nostra stessa direzione.

 

«C’mon guys… go up!». Siamo saliti uno alla volta, con i nostri vestiti appassiti, sgualciti e sudaticci. Ci siamo seduti, chi per terra chi sugli scatoloni semi vuoti, sporcandoci di polvere ed inchiostro caldo. L’odore della carta di giornale appestava tutto l’abitacolo.

 

Dopo pochissimi secondi è scattato il verde. John ha sparato la musica dello stereo a tutto volume ed è partito velocemente. Il rinculo ci ha capovolti tutti l’uno su l’altro. Non riuscivamo a smettere di ridere ed urlare.

 

Era la nostra notte. L’ultima a New York. La più bella. Quella che non ti aspetti ma che desideri.

Quella che avrebbe reso memorabile questo viaggio in questa terra maledettamente attraente.

Quella che, con tutta probabilità, ricorderemo per sempre.

 

Ma voglio aggiungere che oggi, mentre scrivo, ho sotto gli occhi un libro:Cent’anni di solitudinedi Gabriel Garcìa Marquez.

L’ho acquistato diversi mesi fa e non ero mai riuscito ad andare oltre la quarantesima pagina prima di venire qui. Ma sentivo che dovevo insistere e l’ho portato con me. (Una casualità?).

Credo che in uno stesso libro ognuno di noi possa leggerci tante cose. Decine d’interpretazioni. Esegesi diverse. Significati differenti.

Io devo questa lettura ad un amico che lo ha recensito dicendomi semplicemente che a lui quel libro aveva addirittura  «… cambiato la vita …».

 

Cent’anni di solitudine” ha rappresentato la muta “colonna sonora” di questo viaggio… quella che … ha realmente fatto la differenza.

 

 

* * * *

 

 

New York è una città in grado di sorprenderti continuamente. Di gettarti addosso quel bicchiere d’acqua gelata. Quello stupore che altrove non trovi.

 

Passeggiare per le vie di Manhattan vuol dire riparametrare il tuo concetto di grandezza.

I marciapiedi sono grandi.

I grattacieli sono grandi.

I cornetti, i cappuccini, i pezzi di pizza ed i caffè sono grandi.

Le panchine sono grandi.

Qui tutto è esagerato, sproporzionato, vistoso.

 

È grande anche il pericolo di essere accecati. Di perdere di vista e dimenticare la storia passata e… ancor di più… quella recente di questo lembo di terra.

 

Penso alle due Torri. Penso al World Trade Centre. Penso ai tremila morti. Penso alle loro voci disperate dietro a cornette di telefoni in fiamme. Penso alla loro dignità sgretolata sotto la pesante responsabilità di ogni classe dirigente che si è succeduta fino ad oggi e che ha secretato tutte le informazioni che potessero portare alla verità. Utili a dare una risposta ai perché che, ancora oggi, ronzano incessantemente nella testa dei familiari delle vittime ed in quella di tutti gli altri cittadini del mondo. Me compreso!

 

E sì, perché New York è donna. E come tutte le donne sa nascondere bene i suoi segreti, i suoi dolori, le sue malinconie.

Basta farsi belle. Basta saper fingere. Basta truccarsi bene e tutto appare come se niente fosse.

Sono dunque sufficienti i teatri di Broadway. Sono sufficienti le luci continue ed incessanti di Times Square. È sufficiente mandare in onda la pubblicità per far dimenticare la scena di un film più tragico che mai. È sufficiente portartela a letto un sabato notte. Ma la domenica, sì la domenica mattina, senza quel trucco, sarà solo la brutta copia di una prostituta invecchiata.

 

È dunque grande il pericolo di dimenticare il significato di quell’incisione sulla pergamena che la Statua, che svetta all’entrata del porto sull’Hudson River, regge con fierezza. Quel 4 luglio 1776 che significa indipendenza, conquista di diritti, emancipazione, autodeterminazione … Libertà.

 

È criticabile questa America.

È lontana da J.F. Kennedy questa America.

È lontana dai racconti di Horatio Alger e dai sogni di Martin Luther King questa America.

 

È lontana dall’abolizione della schiavitù questa America.

Sembra che qui la gente non si accorga di essere stata schiavizzata nuovamente. Indotta ad accettare indirettamente un sistema ben architettato che tende a fare dell’apparenza l’unica vera arma di distruzione delle masse.

I “negri” che una volta lavoravano nelle piantagioni delle colonie, oggi indossano le Nike. Mangiano da Mc Donald. Si abbuffano di talent show. Sognano di essere le nuove star dell’Hip Hop. Difendono il loro Bronx a colpi di pistole fabbricate, vendute o trafficate a poche miglia da qui.

Non c’è differenza quindi tra Macondo, il Colonnello Aureliano Buendia, Rebeca, Remedios la bella e tutti gli altri personaggi di Márquez e Manhattan con i suoi cittadini, gli attori principali e non protagonisti che mi passano sotto gli occhi da qualche mese a questa parte.

Sembriamo tutti uniti da un unico destino: la progressiva perdita di armonia e semplicità a causa del devastante incombere del progresso.

 

Sì, la differenza la fa il progresso. Sano ed insano progresso.

 

Ma nonostante tutto, qui è grande anche il cuore della gente.

Sono ciccioni. Sono simpatici e mangiano tutto. Anche le parole.

Ecco allora che entri in metropolitana tutto bagnato dopo esserti beccato un improvviso acquazzone e trovi qualcuno che vuole prendersi cura di te in maniera così insistente e sincera che quasi ti senti antipatico a rifiutare. “Insomma Signora, ma io e lei non ci conosciamo neanche… perché vuole darmi il suo cardigan per coprirmi?”. Ed invece quel sorriso e quelle domande sul come e sul perché ti sei bagnato, ti invitano ad accettare quell’aiuto.

Finirà lì… non ci rivedremo più io e la signora del cardigan. Non saprò neanche mai il suo nome perché ho preso la metro Express. Quella veloce. Quella che si ferma solo alle fermate principali. Quella talmente veloce che non faccio in tempo a scendere, girarmi per ringraziare e vederla scomparire in fondo al tunnel.

Ma la differenza è che io, la signora del cardigan, me la ricorderò a lungo perché mi ha evitato un brutto raffreddore. Me la ricorderò perché era sorridente. Me la ricorderò perché è l’immagine di un’America buona.

 

*  *  *  *

 

In questa città mi sto interrogando su cosa fa la differenza … o meglio, cosa rende ogni azione ordinaria, diversa e forse migliore.

 

La differenza durante una passeggiata a Central Park, per esempio, la fa osservare una donna, avanti con l’età, che ha ancora la forza di sorreggere il proprio marito ed aiutarlo a fare un passo in più … quello che da solo non avrebbe mai fatto.

C’è un po’ di Ursula in questa donna. La schiena piegata dalle fatiche dell’età e la forza di non mollare mai mantenendo intatto quel pizzico di dignità che ognuno di noi conserva fino alla morte.

 

La differenza è quella di sedersi su una panchina dove si son sedute migliaia di altre persone che, su quelle stesse panchine, si sono amate, si sono odiate, hanno espresso le loro ire o suggellato amicizie eterne …

 

La differenza sta nel tagliare in diagonale Sheep Meadow, questo enorme manto d’erba verde dove è possibile osservare tutta quella serie di strani sport che dalle mie parti non farebbero appassionare nessuno e che qui, invece, sono praticati con febbrile agonismo anche quando a farli sono, che ne so, padre contro figlio o uomini contro donne…

Non importa che si tratti di lanciare un frisbee, di sperare in un “fuori campo” con una mazza da baseball, di lanciare il pallone ovale del football, oppure di afferrare al volo una pallina con la mazza da Lacrosse

L’importante, a Central Park, è mettercela tutta affinché si possa vincere… è questo che fa la differenza qui. La tenacia. Quella stessa tenacia che apparteneva a Josè Arcadio Buendia. Cocciuto fino alla fine nel cercare di dare un senso scientifico ed un ordine a tutte le cose del mondo. Anche quelle senza nome.

 

La differenza la fa non perdersi a Central Park …

 

Cercare la propria dimensione sotto un albero a dipingere, a leggere, a scrivere, a suonare e cantare oppure correre per mantenersi in forma o semplicemente per scaricare lo stress. Si è tutti nello stesso posto, ma sono sufficienti delle cuffiette per essere universi separati e solitari.

 

La differenza la fa girarsi a guardare il culo sodo di una bella ragazza che corre nel lato opposto al tuo e domandarsi: “Che faccio, le corro dietro? La fermo? E poi cosa le dico? Mica posso dirle “ciao, che bel culo che hai… naaaa, meglio proseguire … magari un giorno sarà lei a fermare me !” … la differenza la fa sognare quell’incontro.

Sognare è una cosa bella, gratuita … innocua.

 

La differenza la fa la canzone che ascolti quando di correre non ne hai proprio voglia, avendo, al contrario, solo voglia di stare per conto tuo ad osservare quello che ti circonda.

 

La differenza la fa la capacità di controllare i tuoi pensieri … sì, di non lasciarti sopraffare da solitudine o eccitazione, frenesia o noia… Márquez ha fatto controllare il pensiero di tutti i suoi personaggi fino all’ultimo sospiro. Anche quando il delirio sembrava prendere il sopravvento, c’era sempre quel pizzico di lucidità che rimetteva ordine.

 

La differenza la fanno i bambini. Teneri e dispettosi, insopportabili e sorridenti. Quelli che quando li osservi ti chiedi: “Ma io ero così? … E perché non lo sono più?”

 

La differenza sta nel pensare che quella passeggiata sotto l’Empire State Building la stai facendo da solo, ma in realtà, dopo tanto tempo, desideri farla con una donna … ma non una qualunque … intendo una che ti ami. Che abbia voglia di essere desiderata e allo stesso tempo che ti desideri.

Una donna che abbia voglia di alzare la testa verso il cielo a cercare di intravedere il centoduesimo piano, l’ultimo, insieme a te.

 

Una donna che abbia voglia di essere guardata negli occhi. Disposta a farci trovare, dentro quegli occhi, un po’ di semplice amore.

 

Sì, perché l’amore non è mica poi così difficile… anzi è la cosa più semplice del mondo.

È come gli Hot Dog venduti per le strade di New York a due dollari.

Sono saporiti. Sono farciti. Sono appetitosi. Fanno male. Ti fanno maledire il momento in cui l’hai desiderato. Ma sono immediati. Sono facili. Sono piccoli e, ogni volta che ne mangerai uno, sai che sarà sempre una nuova gustosa emozione.

 

La parte che amo di più dell’amore sta nelle piccole cose.

 

Non sono più abituato a ricevere un messaggino stupidamente romantico, né tantomeno a scriverlo.

Non sono più abituato a sentire dentro di me quella voglia semplice di guardare un film abbracciato a qualcuno a cui voglio bene.

 

Non sono neanche più abituato a pagare per due.

A dare un appuntamento.

Ad arrivare in ritardo e chiedere scusa improvvisando delle stupide bugie a cui non credo neanche io.

Ad aspettare in macchina e dire “ma quanto sei bella oggi !?”.

 

Non sono neanche più abituato ad essere ostentatamente galante. Ad essere sinceramente me stesso.

Non sono abituato a regalarmi un profumo nuovo per il solo gusto di sentirmi dire che è buono.

 

E poi non è che non mi prenda più cura di me, anzi, forse me ne prendo quanta e più di prima.

 

Ma la differenza è proprio questa.

 

Prendersi cura di se stessi in favore di una relazione è quanto di più romantico ci possa essere. Al diavolo i fiori, le cenette a lume di candela o un ballo lento.

 

La cosa bella è infilarsi una camicia pulita e ben inamidata, due gocce di profumo e non vedere l’ora di passare del tempo di qualità con la tua donna.

Che poi va bene anche l’esatto contrario, ossia la libertà di indossare la t-shirt più brutta che hai … ma io consiglio ugualmente il profumo … l’olfatto va stimolato !

 

È questo che spesso viene meno nelle coppie che osservo …

Manca il profumo…

Non scherzo, manca il profumo di un bel pensiero, il profumo del bene, il profumo di un’idea fantasiosa. Il profumo di un hot dog.

 

È difficile.

È decisamente più facile scriverlo che farlo.

 

Ma pensateci un attimo…

Vale la pena dare valore ad ogni singolo momento? Io dico di sì. Ne vale la pena.

 

La differenza la farebbe avere una donna che mi chiede di leggere quello che ho scritto.

Avere qualcuno interessato a quello che ho da dire.

Qualcuno che mi critichi apertamente e liberamente.

Qualcuno con cui poter discutere e litigare fino allo sfinimento.

Qualcuno che mi condanni e poi mi assolva con desiderio ardente.

Qualcuno a cui interessi il mio piccolo mondo, il mio piccolo Central Park.

 

La differenza la fa il tempo.

Il tuo tempo. Cioè la predisposizione che si ha verso il tempo.

 

Non arriva mica subito…

Ti fa attendere….

Ti fa annoiare, a volte stancare o arrabbiare.

 

Il tempo dell’amore è strano. È diverso da tutti gli altri.

 

Io sono anni che aspetto il mio tempo dell’amore.

E qui a New York, nell’attesa, mi sono accorto che siamo un pugno di ventotteni alla ricerca di una stabilità, ma che poi, dalla stabilità fuggiamo via impauriti.

 

Siamo un pugno di ventottenni che non sa se sposarsi o meno. Perché siamo cresciuti con le nozze d’oro dei nostri nonni (50 anni insieme ?!), con i divorzi dei nostri genitori e la nostra incapacità di parlarci sinceramente guardando dritto-dritto gli occhi di chi ci sta affianco.

 

Siamo un pugno di ventottenni che mette le corna al proprio partner appena prova un leggero sussulto per qualcun altro. Senza alcun rispetto. Senza alcuna remora. Senza un minimo di palle per affrontare una crisi.

Cosa importa?! Tanto morto un papa se ne fa un altro …

Ed il tempo scorre inesorabile. La scala si fa sempre più ripida. Sempre più gradini e poca forza nelle gambe.

 

Siamo un pugno di ventottenni incapaci di fare pazzie per amore o per mantenere unito e difendere con i denti quello che abbiamo creato.

 

Siamo la generazione del profilattico.

Siamo quelli del profilattico rotto e della pillola del giorno dopo.

Siamo quelli che vogliono a tutti i costi un figlio e poi siamo costretti a lasciarlo crescere alla baby-sitter perché dobbiamo lavorare, guadagnare, pagare e poi pretendere.

 

Beh, allora ecco dov’è la differenza.

 

La differenza sta nel fatto che non siamo più disposti ad aspettare.

Vogliamo tutto e lo vogliamo subito.

Vogliamo il lavoro, la macchina, l’amore … il rimedio ai nostri guai.

 

Ma noi cosa diamo indietro? Cosa restituiamo?

 

La frase di Márquez che ha cambiato la prospettiva di questo mio viaggio è la seguente: “La ricerca delle cose perdute è intorpidita dai gesti consuetudinari, ed è per questo che costa tanta fatica trovarle”.

 

Beh allora, forse dovremmo essere in grado di restituire le nostre solitudini. Ecco che avremmo occhi per nuovi amori.

Forse dovremmo restituire le nostre bugie e le nostre diffidenze. Avremmo al nostro fianco una donna, amica sincera.

Restituire i nostri silenzi e condividere i nostri pensieri. Ecco che avremmo non solo un amore, ma un amore vero, facile-facile come gli hot dog.

 

Dovremmo restituire le nostre paure e le nostre abitudini.

Dovremmo essere pronti ad avere nuovi occhi, nuovi sguardi, nuove espressioni.

Allora sì che la vita potrebbe regalarci l’immediatezza di un amore, di un figlio, di un rimedio ai nostri guai.

 

Io non voglio una donna come New York.

Non voglio maschere. Non voglio trucchi.

Non voglio essere teatrale. Non voglio conservare segreti.

Voglio dire tutto e voglio dirlo subito.

 

Allora ecco perché dico “Ciao America…”.

 

Ciao America culla delle diversità…

Ciao America colonizzata e conquistata. Usurpatrice e conquistatrice.

Ciao America che hai una moda talmente strana che non ho capito se è ferma agli anni ’90 o è già nel 2020.

Ciao America con i tuoi grattacieli costruiti in tempi record, con i tuoi taxy gialli ed i tuoi tassisti stravaganti, arroganti, divertenti ed emigranti…

Ciao America con le tue opportunità.

Io non rimango. Vado via. Cerco la mia donna. Quella che abbia voglia di condividere la mia libertà. Quella che farà la differenza. Cerco di aprire la porta e scacciare via le mie solitudini.

 

Ci riuscirò, ci volessero anche Cent’anni.

 

 

 

 

[foto by ANTONIO ERRIGO]

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