Antonio Errigo
25/11/2014
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grande place

 

 

 

Ci sono solo due cose in grado di cambiarti la vita. I concerti e i viaggi”.

 

Non ho pronunciato io questa frase. Magari l’avessi fatto.

Sì, perché quando l’ho ascoltata, l’ho trovata semplice e meravigliosamente vera.

 

I concerti e i viaggi hanno molte cose in comune.

Ti fanno battere il cuore quando stanno per iniziare. Nel mentre, ti catapultano in un mondo parallelo, facendoti sentire solo, solo in mezzo a tanti.

E quando ti piacciono, sembrano divorare il tempo.

 

Ci sono concerti indimenticabili.

Ci sono viaggi che lo sono ancor di più.

E c’è stato un momento in cui l’ho capito realmente. È stato qualche mese fa, quando Nicola Piovani ha diretto l’orchestra Brussels Philharmonic al Teatro Flagey.

Le note de “La vita è bella” hanno disfatto una valigia fino ad allora chiusa. Piena di sensazioni, percezioni e turbamenti.

 

Ho socchiuso gli occhi per pochi secondi. Era arrivato il tempo di capire questa città…

 

Bruxelles ha l’odore del freddo. Ha il colore del nulla. Ha sentimenti ambigui.

Eppure, Bruxelles sembra aver tutto.

Ha quel fascino sfuggente di una gatta che si fa accarezzare ma che, in fondo, se ne fotte di te.

E forse è per questo che chi arriva vuole restare. Perché è una legge di vita: ci s’innamora sempre di chi può fare a meno di noi…

 

Questa città mi ha accolto, mi ha abbracciato, in certi momenti mi ha stritolato. Mi ha fatto diventare migliore e peggiore allo stesso tempo.

Ha alimentato i miei sogni e, contemporaneamente, ha fagocitato la mia fantasia.

 

Eppure qui, insieme alle mani, ai piedi e alla punta del mio naso, è cominciata a congelarsi la mia gioventù. Qui ho cominciato a sentirmi adulto. Adulto per davvero. E per la prima volta questa cosa non mi ha fatto paura, anzi.

 

Ma io una vita compatta ce l’avevo già. Quindi, questa non è l’elucubrazione di un trentenne in preda a profonde trasformazioni personali e affettive.

C’è di più, c’è davvero di più in questo mio primo anno a Bruxelles.

 

C’è che sono arrivato qui per fare qualcosa di raro. Unico, per quel che mi riguarda.

Ho fatto parte del team della Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Unione Europea. Ambasciatori, diplomatici, dirigenti, funzionari, abili negoziatori. Ho fatto parte di quelli che hanno sudato alacremente durante il Semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell’U.E.

Che se provassi a dirlo a mia nonna, mi direbbe «Bravo! Ma che vuol dire?».

 

Vuol dire tante cose. Vuol dire che esiste lo Stato. Che per accorgersene non è mai troppo tardi. Che esiste chi ci crede e si fa un culo grosso così per farne valere le ragioni. Che esiste un nugolo di professionisti che ci mette la faccia, raggiunge risultati e coltiva le ambizioni di un Paese.

 

Gente ben pagata, sì, ma che paga. E talvolta il prezzo ha un solo nome: solitudine.

 

Già la solitudine.

Questo posto ha avuto la capacità di farmi svegliare ogni giorno, per mesi e mesi, con la stessa domanda in testa: «ieri l’ho sfangata e oggi cosa succederà? ».

 

Bruxelles mi ha messo di fronte ai miei limiti. Ma non mi ha teso una mano per superarli. Nessun ponte, nessuna passerella. E forse questo è il valore aggiunto di questo piccolo pezzo di mondo. Vuoi farcela? Bene, sei solo.

È in quel momento che si esaltano le virtù di un uomo. È in quel momento che si sceglie se stare in equilibrio sul bordo della debolezza e della vigliaccheria oppure osare, saltare e atterrare dritti-dritti sul coraggio.

 

Credo di avercela fatta!

 

Credo di aver retto il confronto con questa donna. Sì, Bruxelles, come tutte le città del mondo che hanno segnato la mia vita, è donna. Una di quelle difficili e disinvolte…

 

Donna come la parola francese che mi è mancata.

Donna come l’evidenza, la paura, la vulnerabilità. Ma anche come la sfida. La capacità. La potenza. La dimensione della ragione.

 

Sapete, sono rimasto a guardarla spesso questa città e non c’è mai stato nulla da dire. Nulla da aggiungere.

Le case col tetto spiovente. I mattoncini rossi. I vitrei palazzi delle istituzioni europee. Il cesso da una parte, la doccia dall’altra. I parchi, le siepi ben potate, le piazze. Grand Sablon, Sainte Catherine, Matonge, Les Marolles.

A Bruxelles certe pareti parlano, e tu non devi far altro che ascoltare. Basta stare attenti per cogliere culture, ideologie, eredità, voci, convinzioni e superstizioni.

 

La metafora di questa città va in scena ogni giorno, come fosse un rito: turisti liberi, felici e scherzosi che si inginocchiano agli angoli della Grande Place alla ricerca della giusta prospettiva, con la voglia di raccogliere in un solo scatto tutta la bellezza di quel luogo.

Tanti ne colgono solo un pezzo e vanno avanti indifferenti. Forse sconfitti.

Altri, invece, ci riescono e sono quasi sempre quelli che ci provano e ci riprovano. Quelli che non mollano mai. Quelli che, se si piegano alla grandezza e alla bellezza del mondo, lo fanno perché di quella grandezza e bellezza se ne devono dissetare per non morire.

 

In questi mesi credo di averne conosciuti parecchi di tipi così.

Will, Marcello, Angelo, Giuditta, Emanuela, Marco, Maria Rosaria, Peppe, Ale, Giulia, Bruno, Daisy, Valentina, Anna, Martina, Valeria, Laura, Dhana, Cosimo, Cristina, Giovanna. E ce ne sono tanti altri…

Ognuno con la propria autenticità. Gente che ha ceduto alla tentazione del viaggio. Gente che, come me, ha cibato le proprie fortune con cucchiaiate di sacrifici e determinazione. Un’umanità parallela fatta di storie, capitoli, frasi e parole uniche. Una folla di gente che non trattiene nulla. Che a star lì a sentirli parlare è una bellezza oltre che un lusso. Questa è gente che ha colto in pieno la Grand Place. Questa è gente che ha colto in pieno Bruxelles.

 

C’è un preciso momento alla fine di un concerto in cui tutto sembra avere un senso.

È quando si va via.

È quando si lascia un teatro o uno stadio e ci si avvicina in massa all’uscita. È quando si cammina fianco a fianco con ragazzi e ragazze che fino a quel momento erano estranei, lontani, lontanissimi e diversi da te. Quando sei lì, con l’ultima canzone ancora in testa, e hai l’impressione di essere loro amico.

 

 

E forse, in quel momento, ti sembra che il mondo sia migliore…

 

 

 

 

 

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